"Il patriottismo è l'ultimo rifugio dei mascalzoni"
Samuel Johnson


giovedì 8 ottobre 2015

PIU' RIFORME = MENO TASSE, IL PATTO CON "L'INGANNO" DEL GOVERNO


Il mai eletto Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha chiesto, ma non si sa se abbia poi ottenuto risposta, un “patto con gli italiani” sulla falsariga di quanto fece a sua volta anni addietro durante la trasmissione televisiva “Porta a Porta”, il suo padre politico Silvio Berlusconi.

Il patto prevederebbe uno scambio dove, a fronte di meno tasse, si dovrebbe permettere al Presidente del Consiglio di fare le riforme, e fin qui niente di nuovo, il solito politico all’italiana chiacchierone e inconcludente che se la suona e se la canta da solo.

I politici italiani, soprattutto quando Premier, riescono sempre a spostare in avanti la loro personale soglia del ridicolo, infatti mi piacerebbe sapere quale risposta Renzi (pardon, lui direbbe feed-back) ha potuto ottenere dai cittadini italiani, visto che una volta annunciati i suoi intendimenti pattizi attraverso i media, tutto finisce lì.

Diverso sarebbe stato se a ciò fosse seguito l’esito di un voto politico, allora sì che una occasione di risposta il cittadino-elettore l’avrebbe data, ma in tale maniera, più che un “patto” sottoscrivibile liberamente tra due soggetti, dà l’idea di un ricatto, o meglio, di una boutade estiva da solleone.

Ma anche accettando la buona fede e le buone intenzioni del Premier, questo voler sottoscrivere un patto con gli italiani, sa di stantìo, di già visto, una blanda riedizione aggiornata in stile 2.0 di quanto fece a suo tempo Berlusconi nel 2001, e poi finito nel dimenticatoio il tempo di aprire le urne e decretarlo vincitore e Premier.

Purtroppo il livello cialtronesco della classe politica italiana negli ultimi tre decenni ha avuto la terribile conseguenza di depotenziare termini, approcci e progetti politici di per sé nobili, meritevoli di essere trattati in maniera seria e non meschina: un federalismo serio servirebbe eccome, sarebbe benefico per i tanti sprechi dell’apparato pubblico italiano; una seria politica liberale, servirebbe eccome, per liberare da lacci, lacciuoli e congreghe di vario ordine e grado gli individui e le imprese dotate di buona volontà e talento; una politica seria a favore della famiglia servirebbe eccome, per valorizzare l’unico istituto che ha tenuto in piedi questo Paese nei decenni di difficoltà economica e di minaccia del relativismo culturale; una vera politica sociale servirebbe eccome, per creare un concetto di comunità tanto importante quale prosecuzione dell’individuo e della famiglia, nella quale valorizzare e tutelare gli individui attraverso i cambiamenti di tipo economico, culturale e sociale, laddove una sempre più invasiva e spietata società dei consumi non accetta che “si rimanga indietro”.

Quanto servirebbe tutto questo, quanto servirebbe una classe politica volta ad un’azione politica frutto di approcci e ideologie che permettano di immaginare la società, e agire in tal senso senza altri fini, se non il bene comune.

Ma è un’utopia, ne siamo ben lungi, i politici vivono e agiscono per il consenso, che si ottiene solo comparendo in televisione e formulando discorsi-tweet con la finalità di lisciare il pelo dell’elettorato per il suo giusto verso.

Di riforme sventolate e mai realizzate ne abbiamo fatto il callo, e sul tema dell’invasività del fisco e della pressione fiscale gravante sui ceti produttivi poi, siamo alla nausea.

La Prima Repubblica è crollata sulla spinta di Tangentopoli che ne ha messo a nudo il marciume morale fatto di tangenti, familismi, clientele e comportamenti oltre il limite della sconcezza morale, lasciando in eredità una situazione fatta di dissesto finanziario per le casse dello Stato, con un debito pubblico pari al 120% del PIL.

Con la Seconda Repubblica uno degli obiettivi era quello di far rientrare il rapporto debito/pil a livelli accettabili, anche per tornare ad attrarre capitali stranieri, ma siccome in Italia nessuno è quel che dice, proprio il presunto-liberale Berlusconi è riuscito nell’impresa non solo di non ridurre questo valore, bensì di aumentarlo, segno che il dimagrimento delle spese e degli sprechi dello Stato non è stato in cima ai reali pensieri e alle reali azioni dell’allora Premier. Negli ultimi anni la situazione si è ulteriormente aggravata, e nell’area Euro, dopo l’ormai fallita e colonizzata Grecia, il Paese con il peggior rapporto debito/pil è proprio l’Italia.

Quello che l’ex-presunto rottamatore e attuale Premier, Renzi, dovrebbe dire è tutt’altro. Se avesse un briciolo di coraggio, di buon senso e di disinteresse verso consenso, potere e prossime tornate elettorali, dovrebbe rimarcare come l’unico modo per diminuire la pressione fiscale su imprese e lavoratori è quello di una grossa dieta dimagrante dello Stato italiano, tagliandone spese e sprechi, anche se ciò significherebbe inevitabilmente andare ad incidere la carne viva del consenso elettorale, del voto di scambio. Negli anni, nei decenni, la politica ha ingigantito l’apparato pubblico aumentando oltre ogni ragionevole limite il numero di occupati nel settore pubblico, anche ricorrendo pretestuosamente all’istituzione di enti e apparati vari, a scopo di creare sacche di elettori riconoscenti, degli stipendifici improduttivi e costosi utili solo a lorsignori per poter tenere le chiappe sulle loro comode poltrone a spese dei contribuenti onesti e di lavoratori e imprese serie, produttori e non consumatori di ricchezza. E questa manifestazione di sconcezza morale accade soprattutto in occasione della cosiddetta “legge mancia”, dove sono evidenti le miriadi di potentati elettorali-familistici-clientelari da soddisfare, una riedizione in chiave moderna dell’assalto alla diligenza ma senza l’audacia, il rischio e la virilità dei banditi d’antan.

Gran parte dell’apparato pubblico italiano è uno stipendificio per tornaconto politico-elettorale, oggi così potente e sindacalizzato da essere divenuto lobby e poter ricattare i centri del potere politico, indirizzandone la politica sempre a favore di una maggiore spesa pubblica improduttiva.

Per poter abbassare la pressione fiscale Renzi dovrebbe eliminare centinaia, migliaia di centri di spesa pubblica a livello centrale e periferico, licenziare almeno 1 milione di stipendiati nel settore pubblico, agire con l’accetta su molte regioni soprattutto nel Sud dove si “produce” una non-ricchezza, fatta non da attività privata d’impresa, ma dai soli lauti emolumenti provenienti da impiego pubblico. Ma ciò comporterebbe un sicuro grave danno elettorale e nei consensi, cosa che per chi come lui vive per piacere agli altri, è intollerabile e non percorribile; oltretutto il siluramento del buon Cottarelli è il peggiore indicatore della mancanza di volontà nell’agire in questa direzione.

Dovremo pertanto rassegnarci a valutare queste parole di Renzi sullo scambio tra riforme e minore pressione fiscale, come l’ennesimo parlare a vuoto dell’ennesimo Premier, con l’aggravante che Renzi condisce il tutto con una boria che non riesce a nascondere la propria vuotaggine politica.
 
Roberto Locatelli
 
Tratto da IL SUSSIDIARIO del 04/10/2015

ANESTESIA TOTALE ROSSONERA: IL DECLINO DI UNA SOCIETA' CHE FU GRANDE


Sono lontani i tempi gloriosi delle vittorie in Italia, in Europa e nel mondo, dove una squadra zeppa di campioni italiani e stranieri lottava per i massimi traguardi calcistici, dallo scudetto alla coppa dei campioni.

Pensare cos’è il Milan oggi e confrontarlo con quello del recente passato fa rabbia, quante possibilità avrebbero gli attuali difensori di vedere il campo al cospetto di campioni quali Tassotti, Baresi, Costacurta, Maldini, Filippo Galli o Nesta?

E i centrocampisti al cospetto di Donadoni, Rijkaard, Ancelotti, Evani, Boban, Albertini, Desailly, Gattuso, Pirlo, Seedorf?

Per concludere con gli attaccanti, raffrontati a Van Basten, Gullit, Massaro, Weah, Savicevic, Shevchenko, Kakà e Inzaghi?

E’ ingeneroso anche solo pensare a un raffronto, da un lato campioni che non solo hanno vinto tanto, tantissimo, ma soprattutto hanno insegnato il concetto di squadra e bel calcio a livello internazionale con continuità, dall’altro la situazione attuale…dove termini quali “gioco del calcio” e “squadra di calcio” sembrano parodiati.

Si obietterà che dopo tanti anni di successi è inevitabile che vi siano periodi grami, dove vittorie e trofei latitano, ed è vero, questo il tifoso lo capisce e lo accetta, sa che niente è eterno, non lo sono le vittorie e non lo sono i giocatori più vincenti o più amati, per questo la gioia dei momenti felici esplode in tutta la sua intensità, perché si sa che è effimera, legata al momento. Dal Milan di Sacchi a quello di Ancelotti, passando per quello degli “immortali” di Capello, in tutti questi cicli calcistici  vi sono stati picchi di vittorie e successivi declini, questo il tifoso lo capisce e lo tollera.

Ma ciò che sta accadendo ora al Milan trascende questa situazione, l’ultimo grande trofeo internazionale è stata la vittoria della Coppa Intercontinentale nel dicembre 2007, mentre in Italia si deve ritornare al mese di agosto 2011 con la vittoria della Supercoppa italiana.

Il palmares è vuoto da tempo, non solo, la squadra in questi anni non ha mai dato neppure l’illusione di poter concorrere per la vittoria di alcun trofeo, italiano o internazionale che dir si voglia.

Le ultime due stagioni hanno fatto detonare una situazione sempre più incandescente che dalla società e dalla proprietà, si ripercuote sulla squadra e più in generale sull’intero ambiente rossonero.

Da troppi anni a questa parte non esiste la benché minima programmazione societaria, e non per una mancanza di liquidità, ma soprattutto per una mancanza di capacità e volontà negli uomini al vertice della società: Berlusconi e Galliani.

Ad eccezione dell’ultima sessione di calciomercato, comunque errato perché dispendioso e scriteriato al tempo stesso, il Milan pur essendo per ricavi la seconda società calcistica in Italia, per diversi anni non ha fatto mercato per una mancanza di denaro, ragion per cui, si è dato a bere ai tifosi il fatto che la società è stata obbligata a vendere i suoi migliori giocatori per fare cassa e contestualmente abbassare il monte ingaggi.

Da qui si entra nel ginepraio-Milan, con un “padrone”, Silvio Berlusconi, in tante altre faccende affaccendato e, di fatto, disinteressato al Milan ma intento a economizzare il più possibile da una sua vendita. Tanto quel che poteva ottenere col Milan lo ha ottenuto, ossia una visibilità, un’immagine di vincente e una considerazione internazionale che senza la squadra di calcio A.C. Milan si sarebbe soltanto potuto sognare. Sulle vittorie calcistiche della squadra ha costruito la sua fortuna mediatica e, di riflesso, politica, in Italia e all’estero.

Tramite il Milan, Berlusconi ha sfamato a dovere il suo ego, sino alla sensazione di onnipotenza. E’ doveroso e onesto dire una sacrosanta verità: è il Milan ad avere fatto grande lui, non viceversa! Il Milan era già un club e un marchio conosciuto a livello internazionale, grazie a calciatori come Rivera, Sormani, Hamrin, Cesare Maldini, il trio svedese Gre-No-Li, Trapattoni, ad allenatori inarrivabili come Rocco e Liedholm, al fatto di essere stata la prima squadra italiana ad avere messo in bacheca la coppa dei campioni e ad avere avuto il primo giocatore italiano premiato con il pallone d’oro: Gianni Rivera.

Il Milan era già IL MILAN!

Con Berlusconi sono aumentati i trofei, rinverditi gli antichi fasti del passato, ma soprattutto ne ha avuto lustro lui personalmente, come immagine vincente che ha speso ovunque, in primis in politica.

L’attuale caos societario ha visto contendersi il ruolo di Amministratore Delegato tra il fido Galliani con la figlia Barbara, un duello solo mediaticamente taciuto e rimesso in carreggiata, dando competenze più sul versante tecnico a Galliani e più di marketing a Barbara, ma che, complice i risultati ignominiosi della squadra, nei mesi a venire potrebbero riemergere impetuosi come un fiume carsico con conseguenze negative  più probabili per Galliani.

Da anni la politica tecnica della società, da Berlusconi a Galliani, a parole, è quella di valorizzare i giovani e la squadra primavera per costruire uno zoccolo duro di giocatori italiani, o comunque fatti in casa, da far transitare in prima squadra; tuttavia le belle parole sanno di gran presa in giro in quanto vanno a cozzare con la triste realtà che ha visto negli ultimi anni la squadra essere assemblata a casaccio con giocatori a parametro zero o trentenni svincolati ai quali però pagare un oneroso ingaggio, che poi grava pesantemente sul bilancio della società. Elencare i giocatori immeritevoli di indossare la maglia del Milan sarebbe un esercizio noioso per il lettore e doloroso per chi scrive, tuttavia giova rimarcare che quando i soldi sono stati messi a disposizione si è acquistato un attaccante ventottenne riserva della Juventus (leggi Matri) per dodici milioni di euro!

E l’ipocrisia della politica dei giovani sta nel fatto che negli ultimi anni l’unico giocatore che dalla primavera del Milan è giunto in prima squadra è De Sciglio, e prima di lui bisogna risalire addirittura a inizio anni Novanta con Albertini!

E che dire dell’estate 2014 quando, per fare cassa, si è venduto per sei milioni di euro uno dei più promettenti giovani centrocampisti (Cristante) per poi prendere in prestito per un solo anno dal Chelsea un ectoplasma chiamato Van Ginkel?!

Che qualcosa in società non vada si ravvisa anche tornando con la mente a un anno e mezzo fa, con la cacciata di Allegri e la panchina affidata a Seedorf  il quale, con una squadra scarsa, fece nel girone di ritorno meno punti solo di Juve e Roma, ma che, inopinatamente e senza dare motivazioni alcune ai tifosi, fu messo alla porta per far spazio all’inesperto, ma da tempo pupillo di Galliani, Pippo Inzaghi.

Così quello che poteva essere un rinnovamento societario serio e moderno, si è capovolto in una restaurazione del “condor” Galliani, capace di fare mercato solo acquistando giocatori a parametro zero, o trentenni svincolati, oppure, come nell’ultima sessione di mercato, tessere trattative solo grazie ai suoi “buoni uffici” con gli altri Presidenti delle squadre di calcio, piuttosto che con influenti procuratori.

Così non si costruisce nulla, non si programma nulla ma, nella fattispecie, si consegnano agli allenatori un qualcosa più simile ad un Frankenstein che ad una squadra di calcio.

La scorsa stagione si è andati ben oltre il ridicolo, con una posizione in classifica vergognosa, un gioco inesistente e giocatori che il Milan ha deciso per i più diversi motivi di cedere ad altre squadre che tornano a farsi valere (vedi Torres e Matri), oltre alla constatazione che Max Allegri, l’allenatore della squadra campione d’Italia, vice-campione d’Europa, vincitrice sia della Coppa Italia che della Supercoppa Ialiana, è proprio colui che il Milan scaricò con arroganza un anno e mezzo fa.

E ancora, constatare che negli ultimi decenni la fascia di capitano l’hanno portata al braccio Gianni Rivera, Franco Baresi, Alessandro Costacurta, Paolo Maldini, e vederla indossata da Muntari e Montolivo…questo è troppo!

La situazione è difficile perché senza programmazione e navigando a vista, per il Milan si prospettano ancora diverse stagioni calcistiche irte di difficoltà, a meno che non succeda qualcosa che modifichi l’assetto societario, con l’uscita di scena del padrone, Silvio Berlusconi, e del suo fido Adriano Galliani.

Questa è l’unica e l’ultima speranza per i tifosi rossoneri, perché di questo passo rabbia e delusione andranno a rovinare persino i positivi e glorioso ricordi degli anni passati. Berlusconi e Galliani dovrebbero essere così “umili” (sigh!) da capire che nella vita nulla è eterno e che c’è un tempo per ogni cosa, non si è immortali, si può far bene per un certo lasso di tempo, poi bisogna cedere il passo. Capire di essere arrivati al capolinea di un certo percorso, di vita, professionale o politico, è segno di maturità e saggezza, ma temo che ai tifosi rossoneri non sarà risparmiata l’agonia come lo è stato per i cugini neroazzurri, il cui patron, Massimo Moratti, ha saputo lasciare al momento giusto, quando ancora considerazione e affetto erano al massimo livello, non sbiaditi da rancore e critiche.

Purtroppo l’arrogante onnipotenza che traspare dalle dichiarazioni e dai comportamenti dei due influenti reggitori del Milan non lasciano presagire nulla di buono per il futuro, ma di questo Berlusconi, così attento alla propria immagine di vincente si dovrebbe preoccupare. Perché in Italia il pallone è una cosa seria, al cui confronto la politica è roba per lattanti, e se si può ingannare il cittadino-elettore per decenni con clamorose giravolte politiche, dichiarazioni menzognere, e comportamenti squallidi; altrettanto non lo si può fare con la fede calcistica.

Ricordando ciò che disse tempo addietro il grande Winston Churchill, “gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”, è paragonabile a un peccato e considerato reato di lesa maestà ingannare il cittadino-tifoso, quanto facile e di ruotine ingannare lo stesso cittadino-elettore.

A questo punto non resta che sperare in un cambio di proprietà, con nuove figure dirigenziali e dello staff tecnico che, con una precisa idea tecnica, possano ricostruire una squadra dapprima credibile e poi vincente.

In mancanza di ciò meglio immergersi su YouTube a guardare le gesta dei Milan del passato e dei singoli giocatori che ci hanno deliziato con le loro vittorie e i loro gesti tecnici. Un amarcord in grado di lenire, seppur momentaneamente, il dolore.

Roberto Locatelli
 
Tratto da IL SUSSIDIARIO del 23/09/2015

domenica 13 settembre 2015

L' ANNUNCITE, IL VIRUS CHE AMMALA CHI LAVORA (PER NIENTE)


Come di consueto col volgere al termine della stagione estiva e l’appropinquarsi di quella autunnale prima e invernale poi, i virologi avvertono la popolazione quale virus e di qual carica virale esso sarà portatore, come si trasmetterà, solitamente via aria, e per quanto immobilizzerà a letto il contagiato prima che possa veder esaurita la carica virale dello stesso e poter riprendere la vita di tutti i giorni, con in più l’effetto immunizzante qualora il virus si ripresentasse nell’organismo.

Ma per il prossimo autunno-inverno ci aspetta qualcosa di diverso, già in corso in questi giorni, e che diverrà virale nelle prossime settimane e mesi, è un virus localizzato preferibilmente sul territorio nazionale italiano, si trasmette via etere attraverso tv, radio, giornali e social network (soprattutto via twitter).

Per essere interessati dal virus bisogna essere ben predisposti culturalmente ad essere dei “boccaloni”, per questo si diffonde soprattutto, anche se non solo, in Italia, pertanto ci si deve abbeverare come beoti a ciò che tramite i sopra scritti canali il politico di turno propina con interviste, talk show, dichiarazioni ed esternazioni ad alto contenuto alcolemico, soprattutto se in odore di imminenti elezioni.

Il virus non provoca conseguenze tali da stendere a letto per diversi giorni i malcapitati, anzi, sarebbe una iattura, serve che le persone continuino a lavorare e produrre quella ricchezza che poi potrà essere tranquillamente drenata in maniera indolore con leggi ad-hoc, motivate nella giusta misura con le sempreverdi “finalità sociali” o dando fondo al sentimentalismo patriottico.

Il virus provoca uno stato di immediata “eccitazione” ed euforia simile a quella dell’assunzione di droghe pesanti, tuttavia ben presto gli effetti di “benefico stordimento emotivo” lasciano il passo a depressione e smarrimento verso il futuro, alle quali far fronte con altre dosi massicce di virus. Ma quel che è peggio è che a fronte di questa situazione, non vi è la possibilità che le forze dell’ordine arrestino coloro che lo diffondono in quanto per loro, e solo per lorsignori, vige una non definita ma al contempo salvifica “immunità”.

Gli unici modi che i cittadini hanno per rendersi immuni dal virus sarebbe avere una stampa non asservita al potere politico, oppure avere una cittadinanza attenta, culturalmente preparata e dotata del dono della “critica”, oppure, come estrema ratìo, non fruire di giornali, media e social network.

Ma siccome quest’ultimo caso appartiene più alla teoria che alla realtà, un altro modo, forse ancora più improbabile, sarebbe quello di avere una classe politica un po’ meno cialtrona e un po’ più dignitosa, ma anche questo ormai si è perso nella notte dei tempi della storia repubblicana italiana.

Pertanto, siccome saremo senza speranza, attendiamo gaudenti come ogni anno che, anche il prossimo autunno-inverno si materializzi la pandemia di un virus non solo, ma comunque molto, molto italiano, dal nome al tempo stesso fatidico, tragico, profetico e ridicolo, come solo coloro che lo incarnano sanno essere: l’annuncite.
 
Tratto da IL SUSSIDIARIO del 13/09/2015
 

sabato 18 aprile 2015

PERCHE' LA TURCHIA NEGA IL MASSACRO CHE ISPIRO' PERFINO HITLER?

Nell’imminenza del settantesimo anniversario della liberazione dal nazi-fascismo il 25 aprile prossimo, festa che da sempre anziché unire il popolo italiano, lo divide tra coloro che hanno sempre avocato a sé questa importante ricorrenza, carica del sentimento di rinascita civile e sociale, in maniera pretestuosa, egoistica e arrogante, e coloro che forzatamente ne sono esclusi in quanto ritenuti estranei e persino ostili a tali valori; un’altra importante ricorrenza riguarda un evento di portata storica rilevante e ne siamo divenuti consapevoli in questi giorni.
Il 24 aprile ricorre il centenario di quello che per il popolo armeno è il Medz Yeghern, il “Grande Male”, il genocidio che venne perpetrato ai loro danni dal 1915 al 1918 in coincidenza della discesa in campo nella I Guerra Mondiale dell’Impero Ottomano guidato dai Triumviri Mehemet Talaat, Ismail Enver e Ahmed Djemal, esponenti di spicco del partito Ittihad ve Terakki (Unione e Progresso) nato dall’emergere di una nuova classe politica in seno al movimento dei Giovani Turchi.
Il termine “genocidio” all’epoca in cui accaddero i fatti era sconosciuto, infatti fu coniato per la prima volta dal giurista polacco di origini ebraiche Raphael Lemkin nel suo libro Axis Rule in Occupied Europe (“Il Governo dell’Asse nell’Europa occupata”) pubblicato nel 1944 negli Stati Uniti, e proprio le vicende che interessarono il popolo armeno fornirono lo stimolo al lavoro giuridico di Lemkin, in quanto “atterrito dalla frequenza del male, dalle grandi perdite in vita e cultura,…e soprattutto per l’impunità freddamente accordata al colpevole”.
Lemkin lo definì in questo modo: “Per genocidio intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico…In senso generale, genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione, se non quando esso è realizzato mediante lo sterminio di tutti i membri di una nazione. Esso intende piuttosto designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite individuali che appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte contro individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale”.
Per capire a pieno il significato del termine genocidio, bisogna tenere in debito conto l’intenzione dell’aggressore, infatti diversamente da altre esecrabili e gravissime forme di sterminio, nel genocidio il massacro è un fine e non un mezzo, la logica sottesa è che il nemico viene demonizzato e aggredito per quello che è, stigmatizzandolo come “altro da sé” su base ideologica.
Il lavoro di Lemkin troverà compiutezza con la Risoluzione n.96 dell’11 dicembre 1946 da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ma, siccome all’URSS non piaceva il riferimento a “gruppi politici”, si pervenne a una enunciazione di compromesso con l’adozione della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio” del 9 dicembre 1948, in vigore dal 12 gennaio 1951.
Ciò premesso per inquadrare storicamente e giuridicamente il reato del quale stanno per macchiarsi tutti coloro, èlite politica e a cascata tutti gli esecutori, che parteciparono a ideare e realizzare il genocidio del popolo armeno.
L’Armenia, chiamata anche Hayastan, è una regione in cui tracce di vita neolitica sono testimoniate da documenti storici già verso il 3000 a.C., da sempre territorio di fondamentale importanza per il controllo delle vie di comunicazione tra Oriente e Occidente, nel corso dei secoli questa terra è stata sottoposta al controllo di grandi Imperi e importanti civiltà, dai Persiani ai Greci, dai Romani agli Arabi, ma nonostante ciò gli armeni riuscirono sia a sopravvivere come popolo che come cultura. I passaggi forse più importanti per l’identità del popolo armeno furono due, il primo riguarda la conversione al cristianesimo all’inizio del IV sec. d.C., potendo così vantare di essere la prima nazione cristiana dell’intera storia umana, ciò avvenne sotto il regno di Tiridate III per opera di San Gregorio Illuminatore; mentre il secondo riguarda l’elaborazione dell’alfabeto armeno nel 405 d.C. per opera di Mesrop Mashtots.
Dal XVI sec. d.C. l’Armenia storica venne divisa in due, la parte occidentale entrò a far parte dell’Impero Ottomano, mentre la parte orientale rimase sotto l’egida del dominio persiano.
La storiografia mondiale riconosce ormai senza dubbi che i massacri che interessarono il popolo armeno si svolsero sempre in Turchia, ma in due momenti storici differenti: il primo tra il 1894 e il 1896 condotto dal sultano ottomano Abdul-Hamid II, mentre il secondo, il più tragico, tra il 1915 e il 1918, con la deportazione ed eliminazione di armeni compiuta dal governo dei Giovani Turchi. A questi eventi, va aggiunto un ulteriore triste prologo dello sterminio armeno, quello tra il 1920 e il 1922 ad opera di Mustafa Kemal, detto Ataturk.
Nel proposito di “occidentalizzare” l’Impero Ottomano da parte dei Giovani Turchi avevano riposto le loro speranze anche la comunità armena, tuttavia questa speranza risulterà vana, anzi di più ancora, beffarda, se si pensa che già in un Congresso segreto dei Giovani Turchi tenutosi a Salonicco nel 1911 venne deciso di sopprimere totalmente gli armeni residenti in Turchia.
E quando l’Impero Ottomano partecipò alla I Guerra Mondiale, il 29 ottobre 1914, schiarendosi al fianco degli Imperi Centrali, la comunità armena, all’oscuro di quanto tramavano nei loro confronti i Giovani Turchi, fece arruolare i suoi componenti per assolvere ai loro doveri di fedeli sudditi e soldati dell’Impero Ottomano.
Ma quando sul confine tra Turchia e Russia, la Terza Armata turca venne sbaragliata nel gennaio del 1915 a Sarikamish dalle forze armate russe, ciò fornì il pretesto per mettere in moto il progetto genocida.
Per perpetrare il loro disegno criminale i turchi avevano scarcerato i criminali recidivi più duri e pericolosi denominati tchété, ossia irregolari, in quanto facenti parte di squadre adibite ai lavori più sporchi, e trasformati in agenti del governo, membri del Teskilati Mahsusa, l’Organizzazione Speciale incaricata dei massacri.
L’orrore iniziò la notte del 24 aprile 1915 a Costantinopoli, dove nel corso di una gigantesca retata centinaia di esponenti dell’élite armena vennero arrestati e incarcerati; alcuni furono immediatamente uccisi, altri vennero avviati verso l’Anatolia dove furono massacrati. Lo sterminio proseguì con la soppressione della comunità armena di Costantinopoli: tra il 24 e il 25 aprile 1915 migliaia di giovani armeni della provincia, venuti a Costantinopoli per lavorare come giornalieri, furono arrestati, deportati verso l’Anatolia e infine assassinati. Nel giro di poche settimane decine di migliaia di armeni vennero imprigionati e sottoposti a spaventose e documentate torture, in particolare contro i sacerdoti ai quali vennero strappati gli occhi, le unghie e i denti con punteruoli roventi e tenaglie.
Quando l’esercito turco occupava un villaggio armeno, ordinava agli abitanti di abbandonare, così com’erano, le case e di radunarsi fuori. La popolazione, terrorizzata, impotente, accerchiata da soldati armati, era obbligata a lasciare il villaggio e a cominciare il suo lungo e infernale viaggio forzato verso la morte. Mentre, affamati e bastonati, si trascinavano sulle vie dell’Anatolia, venivano aggrediti dalle bande di tchété che davano man forte all’esercito, completando il saccheggio e lasciando le loro vittime praticamente denudate.
Si hanno testimonianze che nella regione siriana di Deir el-Zor vennero creati campi di raccolta e di sterminio, dove in recinti rigurgitanti di vecchi, donne e bambini, scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo; e proprio il governatore di questa regione, Salih Zeki, ogni mattina era solito cavalcare nei campi tra i profughi, sollevare un bambino, farlo roteare in aria e scagliarlo contro le rocce. E ancora, sempre lo stesso, rinchiuse cinquecento armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su di una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete.
Testimonianze di questi crimini si hanno anche grazie al coraggio nel denunciare e non tacere da parte di diversi diplomatici che si attivarono anche per salvare la popolazione armena, si segnalano tra gli altri l’ambasciatore tedesco conte von Wolff-Metternich, il console italiano Giacomo Gorrini e l’ambasciatore americano Henry Morgenthau.
Secondo lo scrittore e storico tedesco Johannes Lepsius, autore del libro Deutschland und Armenien 1914-1918, il numero totale dell’intera tragedia armena oscilla tra un milione duecentomila e un milione duecentocinquantamila vittime; in pratica i due terzi della popolazione armena residente nell’Impero Ottomano fu soppressa e regioni per millenni abitate da armeni non videro più in futuro nemmeno uno di loro.
Se mai qualcuno leggendo questo articolo sia arrivato al termine chiedendosi se abbia senso a cento anni di distanza ricordare e riflettere su questi tragici fatti, ricordiamo le parole di un altro esemplare di brutalità, Adolf Hitler, il quale, in un discorso del 22 agosto 1939 nell’imminenza dell’invasione della Polonia, così spronava gli ufficiali dello Stato Maggiore a compiere gli orrori poi perpetrati dai soldati tedeschi nella II Guerra Mondiale: “Andate, uccidete senza pietà. Chi è che ricorda oggi l’annientamento del popolo armeno?”
Conoscenza, ricordo e riflessione sono l’antidoto alla reiterazione delle brutalità.


Roberto Locatelli

Tratto da IL SUSSIDIARIO.NET del 15/04/2015
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2015/4/14/GENOCIDIO-ARMENO-Perche-la-Turchia-nega-il-massacro-che-ispiro-perfino-Hitler-/print/599681/

domenica 15 marzo 2015

SALVINI DA ESPELLERE: LO DICE LO STATUTO DELLA LEGA

E’ di questi giorni la querelle tra il segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini e quello della Liga Veneta, Tosi, in merito alla composizione delle prossime liste elettorali per le imminenti elezioni nella Regione Veneto. Una disputa che si è giocata mediaticamente frapponendo l’uno all’altro le regole dello Statuto del partito; nella realtà tutta questa contesa nasconde, anche malamente, le reali intenzioni di potere e carriera politica dei due contendenti.
L’ha spuntata Salvini, non tanto perchè avesse più ragioni del suo contendente, quanto perché è il più alto in grado dei due, e alla fine la pletora di dirigenti e “tirapiedi” di medio e alto livello nel partito hanno preso posizione a favore del più forte, di colui che gli può far fare una migliore carriera politica: l’attuale segretario federale della Lega Nord.
Ma più che occuparmi della vicenda che ha interessato i due, voglio soffermarmi sulla figura di Matteo Salvini e sul ruolo politico del partito Lega Nord per l’Indipendenza della Padania.
Sì, perché se poco più di un anno fa il partito era accreditato al 3% a livello nazionale e solo dopo pochi mesi di dirigenza Salvini si è attestato al 6% alle scorse elezioni Europee, ora i sondaggi vedono veleggiare la Lega ben oltre il 15% a livello nazionale e puntare persino al 20%.
Un successo si dirà. Neanche per sogno, anzi, è un fallimento!
Un partito dovrebbe (il condizionale è d’obbligo, vista la degenerazione di questi apparati negli ultimi decenni!) aggregare simpatizzanti, militanti ed elettori attorno a idee economico-sociali e identità socio-culturali, tali poi da caratterizzare in maniera precisa l’azione politica negli apparati amministrativi e burocratici. E se un partito è denominato Lega Nord per l’Indipendenza della Padania dovrebbe esprimere un’azione politica volta a ricercare pervicacemente l’indipendenza della Padania, sganciando una parte dell’attuale territorio italiano per costituire qualcosa di nuovo e di altro rispetto all’Italia.
Tanto più che l’art.1dello Statuto del partito recita che “il Movimento…ha per finalità il conseguimento dell’Indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”.
Ora, alla luce di quanto scritto, come si colloca l’azione politica del leader Matteo Salvini? E’ in linea con l’art. 1 dello Statuto? Direi proprio di no, anzi sarebbe passibile di provvedimento d’espulsione dallo stesso.
Salvini si è da subito elevato a paladino dell’italianità, sostenendo che l’Italia o si salva tutta (dalla crisi economica) o non ci sarà speranza per nessuno, e chiede un ritorno alla lira in barba all’euro. Semplificando, l’attuale leader della Lega Nord per l’Indipendenza della Padania si batte affinché ci si affratelli in un sol abbraccio Nord, Centro e Sud Italia, facendo a cazzotti con i Paesi della Mitteleuropa…una cosa mai sentita prima in trent’anni di politica leghista!
Nessun partito indipendentista d’Europa cerca di allontanarsi dall’Europa politica per abbracciare il proprio centralismo nazionalista; sbagliano scozzesi, catalani, baschi, bretoni, corsi, fiamminghi, o sbaglia l’attuale leader leghista ad aver trasformato un partito autonomista-indipendentista in un partito di estrema destra nazionalista?!
A essere coerenti con lo Statuto e farlo rispettare, Salvini sarebbe da espellere dal partito medesimo per violazione proprio dell’art. 1, quello più importante, quello che definisce il partito nella sua “ragione sociale” e nella sua essenza politica ma, tranquilli, come nella migliori commedie all’italiana nessuno oserà tanto nel partito.
Nessuno oserà mettere in dubbio l’azione mediatica del “capitano” (sì perché, da tifoso milanista, l’utilizzo della metafora calcistica crea affinità con la base politica e con l’elettorato…dal capo o senatùr, al capitano), la quale, miracolosamente, si sta anche materializzando sottoforma di consenso elettorale “virtuale”, in quanto per ora solo valorizzato numericamente da sondaggi. Ma, attenzione, non ancora concretizzato da un vero e tangibile voto politico; non sono così infrequenti i casi di delusione da urne aperte dopo che i sondaggi davano una certa compagine politica ad altri livelli di preferenze elettorali.
Tuttavia quel che è più importante sottolineare è cosa resta della Lega Nord, qual è il senso della sua esistenza ora che persegue un’azione politica che contrasta con la sua stessa ragione sociale, l’indipendenza della Padania, e in palese e smaccata violazione dell’art.1 del proprio Statuto?
Salvini più che “il capitano” sembra “il liquidatore fallimentare” della Lega Nord per l’indipendenza della Padania, non risultando in nessun intervento pubblico o mass-mediatico alcun riferimento né al concetto di Padania, né di indipendenza, ma neppure di federalismo. In ciò si può proprio dire che sia stato il degno prosecutore di quell’opera di demolizione dell’essenza del partito che ebbe una svolta senza ritorno in Roberto Maroni, quando da segretario Federale della Lega Nord sostituì al concetto identitario etnico-territoriale di Padania, quello di un punto cardinale, con lo slogan “prima il Nord” buono per la vendita di prodotti da supermercato.
Vero è che la crisi della Lega Nord viene da più lontano, dagli innumerevoli fallimenti negli obiettivi prefissati, il primo nel lontano 1996 quando si prefisse la secessione dall’Italia da completare entro l’anno successivo (1997)…ma nulla accadde. Successe invece che nel 2001 ci fu l’alleanza con il nemico giurato di qualche anno prima, Silvio Berlusconi e la sua Forza Italia, con la prospettiva di giungere alla Devolution, una devoluzione di poteri dal centro alla periferia, sullo stampo di quanto si stava facendo in Scozia. Solo che lì l’hanno raggiunta in meno di una legislatura e nel corso degli anni a seguire hanno ottenuto ulteriori traguardi sino a giocarsi una consultazione per l’indipendenza della propria nazione dalla Gran Bretagna lo scorso anno; mentre qui nulla accadde, anzi il centralismo ne uscì rafforzato anche per le inchieste giudiziarie che negli ultimi anni hanno terremotato la quasi totalità dei consigli regionali a causa della loro propensione allo sperpero di denaro pubblico per uso prettamente privatistico.
Alla luce di quanto detto, si può ben concordare nel vedere e definire Matteo Salvini non già “il capitano”, bensì “il liquidatore”, per giunta fallimentare, di un partito che da giuste rivendicazioni e oneste documentazioni in merito alla spoliazione del Nord operata dai partiti politici della Prima Repubblica, è giunto a negare sé stesso per trasformarsi in un partito di estrema destra, nazionalista, disprezzando e annichilendo le identità territoriali nel nome di un’unica identità nazionale, quella italiana. Dalla valorizzazione degli scritti e della storia di Carlo Cattaneo e di Gianfranco Miglio, si è approdati alla fascinazione per la figura del Duce!
Urge fermare l’agonia di questo partito che, al di là di voti e consensi a oggi virtuali perché presenti solo nei sondaggi, ha smarrito irrimediabilmente la sua essenza territoriale e culturale, è un prodotto che il televenditore Salvini sa piazzare bene nelle case degli italiani ma che, una volta aperto, è pieno solo delle sue vuote chiacchiere, senz’anima e senza una visione della società.


Locatelli Roberto

Tratto da IL SUSSIDIARIO.NET del 15/03/2015
http://www.ilsussidiario.net/News/Politica/2015/3/15/IL-CASO-Salvini-da-espellere-lo-dice-lo-Statuto-della-Lega/590350/