Il mai eletto
Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha chiesto, ma non si sa se abbia poi ottenuto
risposta, un “patto con gli italiani” sulla falsariga di quanto fece a sua
volta anni addietro durante la trasmissione televisiva “Porta a Porta”, il suo
padre politico Silvio Berlusconi.
Il patto prevederebbe
uno scambio dove, a fronte di meno tasse, si dovrebbe permettere al Presidente
del Consiglio di fare le riforme, e fin qui niente di nuovo, il solito politico
all’italiana chiacchierone e inconcludente che se la suona e se la canta da
solo.
I politici italiani,
soprattutto quando Premier, riescono sempre a spostare in avanti la loro personale
soglia del ridicolo, infatti mi piacerebbe sapere quale risposta Renzi (pardon, lui direbbe feed-back) ha potuto ottenere dai cittadini italiani, visto che una
volta annunciati i suoi intendimenti pattizi attraverso i media, tutto finisce
lì.
Diverso sarebbe stato
se a ciò fosse seguito l’esito di un voto politico, allora sì che una occasione
di risposta il cittadino-elettore l’avrebbe data, ma in tale maniera, più che
un “patto” sottoscrivibile liberamente tra due soggetti, dà l’idea di un
ricatto, o meglio, di una boutade estiva da solleone.
Ma anche accettando la
buona fede e le buone intenzioni del Premier, questo voler sottoscrivere un
patto con gli italiani, sa di stantìo, di già visto, una blanda riedizione
aggiornata in stile 2.0 di quanto fece a suo tempo Berlusconi nel 2001, e poi
finito nel dimenticatoio il tempo di aprire le urne e decretarlo vincitore e
Premier.
Purtroppo il livello
cialtronesco della classe politica italiana negli ultimi tre decenni ha avuto
la terribile conseguenza di depotenziare termini, approcci e progetti politici
di per sé nobili, meritevoli di essere trattati in maniera seria e non meschina:
un federalismo serio servirebbe eccome, sarebbe benefico per i tanti sprechi
dell’apparato pubblico italiano; una seria politica liberale, servirebbe
eccome, per liberare da lacci, lacciuoli e congreghe di vario ordine e grado
gli individui e le imprese dotate di buona volontà e talento; una politica
seria a favore della famiglia servirebbe eccome, per valorizzare l’unico
istituto che ha tenuto in piedi questo Paese nei decenni di difficoltà
economica e di minaccia del relativismo culturale; una vera politica sociale
servirebbe eccome, per creare un concetto di comunità tanto importante quale
prosecuzione dell’individuo e della famiglia, nella quale valorizzare e tutelare
gli individui attraverso i cambiamenti di tipo economico, culturale e sociale, laddove
una sempre più invasiva e spietata società dei consumi non accetta che “si
rimanga indietro”.
Quanto servirebbe tutto
questo, quanto servirebbe una classe politica volta ad un’azione politica
frutto di approcci e ideologie che permettano di immaginare la società, e agire
in tal senso senza altri fini, se non il bene comune.
Ma è un’utopia, ne
siamo ben lungi, i politici vivono e agiscono per il consenso, che si ottiene
solo comparendo in televisione e formulando discorsi-tweet con la finalità di
lisciare il pelo dell’elettorato per il suo giusto verso.
Di riforme sventolate e
mai realizzate ne abbiamo fatto il callo, e sul tema dell’invasività del fisco
e della pressione fiscale gravante sui ceti produttivi poi, siamo alla nausea.
La Prima Repubblica è
crollata sulla spinta di Tangentopoli che ne ha messo a nudo il marciume morale
fatto di tangenti, familismi, clientele e comportamenti oltre il limite della
sconcezza morale, lasciando in eredità una situazione fatta di dissesto
finanziario per le casse dello Stato, con un debito pubblico pari al 120% del
PIL.
Con la Seconda
Repubblica uno degli obiettivi era quello di far rientrare il rapporto
debito/pil a livelli accettabili, anche per tornare ad attrarre capitali
stranieri, ma siccome in Italia nessuno è quel che dice, proprio il
presunto-liberale Berlusconi è riuscito nell’impresa non solo di non ridurre
questo valore, bensì di aumentarlo, segno che il dimagrimento delle spese e degli
sprechi dello Stato non è stato in cima ai reali pensieri e alle reali azioni
dell’allora Premier. Negli ultimi anni la situazione si è ulteriormente
aggravata, e nell’area Euro, dopo l’ormai fallita e colonizzata Grecia, il
Paese con il peggior rapporto debito/pil è proprio l’Italia.
Quello che
l’ex-presunto rottamatore e attuale Premier, Renzi, dovrebbe dire è tutt’altro.
Se avesse un briciolo di coraggio, di buon senso e di disinteresse verso
consenso, potere e prossime tornate elettorali, dovrebbe rimarcare come l’unico
modo per diminuire la pressione fiscale su imprese e lavoratori è quello di una
grossa dieta dimagrante dello Stato italiano, tagliandone spese e sprechi,
anche se ciò significherebbe inevitabilmente andare ad incidere la carne viva del
consenso elettorale, del voto di scambio. Negli anni, nei decenni, la politica
ha ingigantito l’apparato pubblico aumentando oltre ogni ragionevole limite il
numero di occupati nel settore pubblico, anche ricorrendo pretestuosamente all’istituzione
di enti e apparati vari, a scopo di creare sacche di elettori riconoscenti,
degli stipendifici improduttivi e costosi utili solo a lorsignori per poter
tenere le chiappe sulle loro comode poltrone a spese dei contribuenti onesti e
di lavoratori e imprese serie, produttori e non consumatori di ricchezza. E
questa manifestazione di sconcezza morale accade soprattutto in occasione della
cosiddetta “legge mancia”, dove sono evidenti le miriadi di potentati
elettorali-familistici-clientelari da soddisfare, una riedizione in chiave
moderna dell’assalto alla diligenza ma senza l’audacia, il rischio e la
virilità dei banditi d’antan.
Gran parte
dell’apparato pubblico italiano è uno stipendificio per tornaconto politico-elettorale,
oggi così potente e sindacalizzato da essere divenuto lobby e poter ricattare i
centri del potere politico, indirizzandone la politica sempre a favore di una
maggiore spesa pubblica improduttiva.
Per poter abbassare la
pressione fiscale Renzi dovrebbe eliminare centinaia, migliaia di centri di spesa
pubblica a livello centrale e periferico, licenziare almeno 1 milione di
stipendiati nel settore pubblico, agire con l’accetta su molte regioni
soprattutto nel Sud dove si “produce” una non-ricchezza, fatta non da attività
privata d’impresa, ma dai soli lauti emolumenti provenienti da impiego
pubblico. Ma ciò comporterebbe un sicuro grave danno elettorale e nei consensi,
cosa che per chi come lui vive per piacere agli altri, è intollerabile e non
percorribile; oltretutto il siluramento del buon Cottarelli è il peggiore
indicatore della mancanza di volontà nell’agire in questa direzione.
Dovremo pertanto rassegnarci
a valutare queste parole di Renzi sullo scambio tra riforme e minore pressione
fiscale, come l’ennesimo parlare a vuoto dell’ennesimo Premier, con
l’aggravante che Renzi condisce il tutto con una boria che non riesce a
nascondere la propria vuotaggine politica.
Roberto Locatelli
Tratto da IL SUSSIDIARIO del 04/10/2015